Di Beatrice Beneforti
Parliamo di ansia con la stessa facilità con cui parliamo di fame e sonno, ma siamo sicuri di sapere davvero cosa vogliamo dire quando pronunciamo la parola ansia? Secondo la psicologia, l’ansia è associata all’emozione della paura e, tendenzialmente, è necessaria per la sopravvivenza della specie. Quando però l’ansia non deriva da paure più o meno realistiche, può diventare patologica. Ad esempio, un piccolo coniglio nel bosco all’inizio si spaventa sentendo il rumore provenire dal cespuglio e scappa. Successivamente, quando capisce che a ogni stimolo (rumore dal cespuglio) non sempre corrisponde un pericolo (predatore), la preoccupazione diminuisce e inizia a distinguere gli stimoli potenzialmente pericolosi da quelli neutri (foglie mosse dal vento), altrimenti morirebbe di crepacuore ad ogni movimento delle foglie. Sui social tra il 2010 e il 2020, abbiamo assistito a un trend che vedeva la parola ansia come protagonista. Chiunque aveva nel feed almeno una vignetta con personaggi reali o di fantasia, che esclamavano frasi come “che ansia”, “generazione ansia”, “ansia a colazione”.
Dietro queste affermazioni però ci potrebbero essere stati tristezza, paura, stress, angoscia, depressione, nervosismo. Eppure questa semplificazione diventata universale, ci ha creato un modo di rappresentare stati d’animo diversi ma simili, in cui quasi tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo riconosciuti. Generazione Z e Millennials, conoscono perfettamente questo linguaggio che è presente ora anche nella quotidianità fisica. Negli ultimi anni, specie a seguito della pandemia Covid-19, il dibattito pubblico sulla malattia mentale si è acceso e sciolto, specialmente su social come Instagram e TikTok. Ma ci stiamo chiedendo se questo overtalking abbia prodotto un vero e proprio dibattito profondo e utile allo sviluppo della salute mentale. Siamo sicuri che tutto questo parlare, quindi, ci abbia dato l’opportunità di riconoscerci e tranquillizzarci nella conoscenza delle nostre emozioni, oppure ci abbia creato un altro stereotipo in cui sentirsi al sicuro e lontani dalle nostre reali difficoltà e, di conseguenza, dalle responsabilità che questo sistema iper-prestante ci impone?
Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Beatrice Gori che ci ha detto che per prima cosa tendiamo a condensare nella parola ansia tutto quello che è emozione non codificata, ma avvertita come spiacevole e questo ci fa capire quanto può essere scarsa la conoscenza delle nostre emozioni. Inoltre questa normalizzazione del disagio – seppur non approfondita – ci permette di non sentirci soli e di mandare un messaggio al mondo come: “Mi sto già giudicando io, non mi giudicare”. Ci chiediamo, allora, a cosa serva normalizzare? Normalizzare un atteggiamento comune, non dovrebbe darci il pretesto per allontanarci gli uni dagli altri, ma di tranquillizzarci perchè abbiamo capito come funziona la struttura del nostro corpo e della nostra mente. Normalizzare l’ansia sui social – che poi forse, proprio ansia non è – ha fornito un’arma a doppio taglio ai giovani che, sicuramente vivono un periodo di disagio, ma che si allontanano ancora di più, sentendosi riconosciuti dalla comunità online. Non vogliamo dire che non bisogna parlare di ansia, ma sarebbe utile poter riconoscere le proprie emozioni in modo da tranquillizzarci e avere i mezzi giusti per sopportarle e conviverci, per non vergognarci delle nostre debolezze e sentirsi così davvero accettati dagli altri.